domenica 26 dicembre 2010

"Viaggio in India", ricercando le incolpevoli origini

Giulio Gasperini
ROMA – Era il 1960: l’India principiava a incuriosire e ad affascinare (pregiudizievolmente) la vecchia e annoiata Europa, appena ristabilita dalla ferocia della guerra. Anche Alfredo Todisco partì: doveva lavorare, doveva redigere un reportage per “La Stampa”. “Viaggio in India” (Mondadori, 1966) è il testo sbocciato da codesto viaggio: un testo agevole, intrigante; e, soprattutto, inaspettato, perché travalica i limiti di semplice scrittura giornalistica, e contorna, definisce, la ricerca personale dell’uomo – che è uomo prim’ancora d’esser giornalista.

Todisco si coniuga in una moltitudine di narratori, di tessitori di fiabe: c’è il Todisco viaggiatore viaggiante, c’è il Todisco teorico, quello categorizzante e c’è, inevitabile per un luogo dell’anima come (era, ahimè) l’India, il Todisco ontologico, intimo e intimistico.
L’India è definita, da Todisco, come un continente in bilico tra il bagaglio enorme di cultura e tradizione e le nuove spinte della modernità sociale e tecnologica, meccanica e politica: un grande, immenso, continente, popolato a dismisura, che sarà ben presto assediato dalle macchine della TATA (colosso oramai globale) e le eccellenze studentesche in matematica e informatica. Più di Moravia e Pasolini, che negli stessi anni si recarono in India (con la Morante) per un viaggio dai simili intenti, Todisco seppe penetrare meglio i meccanismi dell’India, seppe documentarli più attentamente e approfonditamente, in un’analisi che si trova sempre in bilico tra giornalismo e letteratura, senza mai inficiare l’una o l’altra, ma facendole pacificamente (e straordinariamente) convivere.
È un testo, questo “Viaggio in India”, che, più degli altri due, si avvicina al modello ideale del reportage di viaggio; un testo che riesce, più degli esperimenti di Pasolini e Moravia, a cogliere vari aspetti, in più alto grado e sapienza, con più saggezza d’inquadrature e capacità di cogliere l’insieme, indugiando sui dettagli ma non scindendoli irrimediabilmente dal quadro generale e complessivo: come i grandi narratori, i grandi cronisti, eran capaci di fare.
Il totale silenzio di Todisco su Agra e il Taj Mahal è una lacuna grave, gravissima. Anche la descrizione di Benares (oggi, Varanasi) inizia in modo sfolgorante ma esaurisce notevolmente la sua forza persuasiva (e descrittiva). Ma i meriti di Todisco riescon in qualche modo a supplire a codeste mancanze: primo merito tra tutti, il capitolo inziale, quello in cui parla della “matita di Dio”, ovvero Madre Teresa: un capitolo agrodolce e terso, limpido e intelligente. Umile e dolce.

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