ROMA – Nei 90 minuti di una partita di calcio ciascuno di noi (o almeno il tifoso) assiste all’azione, si entusiasma per i gol, si dispera per un’azione soffocata, per un palo centrato, per un cartellino rosso sollevato. In quei 90 minuti contempliamo una competizione, una gara che, spesso, assume i contorni d’una lotta: le declinazione contemporanea della guerra. Ma cosa succede, in quei 90 minuti, a un giocatore? Cosa pensa? Come si equilibra tra vita e gioco, tra esistenza e azione? Remo Carulli, giovane psicologo sportivo, sgrana una partita, come ce ne potrebbero essere tante, minuto dopo minuto, dirigendo il riflettore su un giocatore in particolare. I "Pensieri di un terzino sinistro" (Zona, 2009) diventano, dunque, declinazione di una figura che, oggi, ha assunto i contorni mitici dell’eroe post-moderno, del condottiero che guida le proprie truppe all’assalto d’una fortezza. E se non la espugna sono guai.
Remo Carulli ha il grande merito (soprattutto agli occhi di coloro ai quali il calcio, più che uno sport, è soltanto una fastidiosa manifestazione di delirio collettivo) di sublimare lo sport nel senso più stretto del termine e di renderlo significativa metafora della vita, dei movimenti e dei fraintendimenti, delle casualità e degli autolesionismi che, intrecciati tutti insieme, creano la Vita, quella con la V maiuscola. Sicché capiamo tutte le altre sentenze che son pronunciate dai giocatori, che siano portieri o attaccanti; capiamo il processo di indagine e di scoperta personale che il terzino compie nei confronti di sé stesso, relazionandosi non soltanto coi compagni ma anche coi rivali, anch’essi personaggi mitici che, di volta in volta, assumono contorni e tinte sempre diverse. Capiamo anche l’ironia (anche quando declinata nella sua forma estrema, ovvero il sarcasmo) con la quale Carulli, in una divertita architettura, sostiene il racconto: la capiamo perché è la stessa che, per sopravvivere, dovremmo applicare al racconto della Vita, quella vera.
Remo Carulli ha il merito di aver tentato di motivare il calcio, di presentarcelo come se fosse una “cosa seria”. Da parte nostra, noi, abituati alla contemporaneità (e alla realtà delle prime pagine dei quotidiani), potremmo anche riuscire a farci cullare dall’illusione.
Non sveliamo il risultato della partita; ché in realtà, di importanza, non ne ha molta. Parafrasando Kavafis, non è tanto importante la mèta, quanto piuttosto la strada che siamo costretti a percorrere per raggiungerla.
Remo Carulli ha il grande merito (soprattutto agli occhi di coloro ai quali il calcio, più che uno sport, è soltanto una fastidiosa manifestazione di delirio collettivo) di sublimare lo sport nel senso più stretto del termine e di renderlo significativa metafora della vita, dei movimenti e dei fraintendimenti, delle casualità e degli autolesionismi che, intrecciati tutti insieme, creano la Vita, quella con la V maiuscola. Sicché capiamo tutte le altre sentenze che son pronunciate dai giocatori, che siano portieri o attaccanti; capiamo il processo di indagine e di scoperta personale che il terzino compie nei confronti di sé stesso, relazionandosi non soltanto coi compagni ma anche coi rivali, anch’essi personaggi mitici che, di volta in volta, assumono contorni e tinte sempre diverse. Capiamo anche l’ironia (anche quando declinata nella sua forma estrema, ovvero il sarcasmo) con la quale Carulli, in una divertita architettura, sostiene il racconto: la capiamo perché è la stessa che, per sopravvivere, dovremmo applicare al racconto della Vita, quella vera.
Remo Carulli ha il merito di aver tentato di motivare il calcio, di presentarcelo come se fosse una “cosa seria”. Da parte nostra, noi, abituati alla contemporaneità (e alla realtà delle prime pagine dei quotidiani), potremmo anche riuscire a farci cullare dall’illusione.
Non sveliamo il risultato della partita; ché in realtà, di importanza, non ne ha molta. Parafrasando Kavafis, non è tanto importante la mèta, quanto piuttosto la strada che siamo costretti a percorrere per raggiungerla.
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