venerdì 23 settembre 2011

"I ca dao del Vietnam": la poesia del quotidiano che nutre l'uomo.

Giulio Gasperini
ROMA –
La poesia, si sa, nacque esattamente quando nacque l’uomo. Prima della narrativa l’uomo manifestò la sua coscienza artistica tramite versi, tramite il modulare di ritmi e suoni. Ed era una poesia, come Omero insegna, che discettava del quotidiano, che nella vita di ogni istante, di ogni attimo, sapeva gemmare ed elevarsi a voce dell’eterno, in un laccio così stretto e inscindibile tra la materialità dell’esistenza e la validità acronica dei sentimenti. I primi poeti furon tutti anonimi, senza voci né volti, proprio perché la visione poetica era di competenza comune. “I ca dao del Vietnam” (pubblicati dalla ObarraO edizioni nel 2000) proprio questa ricchezza possiedono: quella, cioè, d'esser stati composti da uomini comuni, da contadini, da barcaioli, che possedevano la ricchezza piena della lingua e sapevano accordarla sontuosamente con gli elementi naturali, coi loro moti interiori, coi profili degli altri uomini e delle altre donne.


La lingua vietnamita è una lingua dolce e complessa, dalla storia travagliata e dagli apporti consistenti dal cinese e da altri idiomi. Per questa la traduzione contravviene molto al messaggio originale. Però le immagini che codesta poesia sa evocare, i legami d’assoluta perfezione, disarmanti nella loro semplicità e purezza, la perfetta corrispondenza tra sensi umani e potenza naturale non si incrina, ma riluce splendida e cristallina anche tramite l’interpolazione d’un traduttore (“Io sono una goccia di pioggia che cade, cade nel pozzo, cade nel roseto. Io sono una goccia di pioggia che cade, cade sul palazzo, cade nella risaia”).
I ca dao hanno formato non soltanto la coscienza poetica del popolo vietnamita, ma finanche quella politica e sociale, perché diventarono uno strumento privilegiato della resistenza, un tentativo di non cedere e di mantenersi saldi al proprio impegno prioritario di libertà (“Mangio germogli di bambù, mangio bambù grosso, in giro vedo solo bambù, nessun amico”, “se non vado in miniera tu cosa mangi?”). E poi c’è l’amore, il perfetto argomento poetico, che qui si colora di note lontane dalle nostre tradizioni, e ci si presenta diverso, remoto, e ancor più interessante: “Ti amo, è la mia piccola sorte”, “tante tegole ha il dinh, tante volte ti amo”, “Amarsi, non c’è bisogno di letto e stuoia, basta una grande foglia per coprirsi della rugiada”. E poi c’è la tradizione, la saggezza, la ricchezza dei vecchi che vedono passare le stagioni e imparano come vivere, assecondandole e rispettandole: “Pioggia fine del nono mese, vento gelato, sollevo il secchio come mani tremanti”, “Vado a lavorare la risaia comune, scodella grande, soldi in mano”.
Oriana Fallaci ha scritto che questo piccolo paese, il Vietnam, ci aveva dato troppo: “Ci ha dato la coscienza d’essere uomini”. Lei parlava della guerra; io credo che si possa dire anche per la poesia.

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