
ROMA – Stephanie Barron ha la febbre dei gialli letterari: dalla sua pena è nata, da qualche anno, la nuova declinazione di Jane Austen che, senza denaro e non ancora pubblicato The Pride and the Prejudice, si diverte a indagare e risolvere i piccoli misteri delle campagne inglesi. In questo nuovo romanzo, invece, la Barron tiene a riposo l’autrice di Mansfield Park ed Emma, e decide di riesumare alla modernità un’altra autrice cardine di tutta la letteratura del ‘900: niente meno che la Woolf, Virginia Woolf. In “Virginia Woolf e il giardino bianco”, pubblicato da TEA nella Narrativa, si diverte, la Barron, a inventare gli ultimi giorni di vita della grande scrittrice inglese.
Il corpo della Woolf fu trovato soltanto molti giorni dopo la sua scomparsa: è possibile che la scrittrice avesse soltanto simulato il suo suicidio per sparire e poi uccidersi molti giorni dopo la data ritenuta ufficiale? Dove aveva passato questo arco di tempo? Da chi si era rifugiata?
La detective improvvisata è, appunto, un architetto del paesaggio, Jo Bellamy, che approda a Sissinghurst Castle per studiare (e ricostruirlo, negli States, per un suo cliente/amante) il famoso White Garden che la scrittrice Vita Sackville-West (raffinata scrittrice, coraggiosa viaggiatrice e appassionata amante anche omosessuale) aveva creato per la sua amata Virginia: un giardino completamente bianco, in ogni dettaglio. Qui, in un casale dimesso della proprietà, la Bellamy rinvenirà un diario, scritto pare da Virginia stessa, che principia con la data successiva a quella, conosciuta e ufficiale, della sua morte.
La saggezza popolare ci ammoniva (e il sagrestano della Tosca lo cantava con sguardo torvo) che coi fanti si può anche scherzare, ma che i santi devono esser lasciati in pace. E se la storia è incalzante e il romanzo scorrevole, alla fine della lettura rimane un po’ l’agrodolce retrogusto (e l’assurdità imbarazzante) di essersi, effettivamente, troppo baloccati coi (e sui) santi. Mentre, al contrario, i santi andrebbero lasciati in pace, soprattutto quando possono (e devono) godere meritatamente della loro letteraria giusta gloria.
La saggezza popolare ci ammoniva (e il sagrestano della Tosca lo cantava con sguardo torvo) che coi fanti si può anche scherzare, ma che i santi devono esser lasciati in pace. E se la storia è incalzante e il romanzo scorrevole, alla fine della lettura rimane un po’ l’agrodolce retrogusto (e l’assurdità imbarazzante) di essersi, effettivamente, troppo baloccati coi (e sui) santi. Mentre, al contrario, i santi andrebbero lasciati in pace, soprattutto quando possono (e devono) godere meritatamente della loro letteraria giusta gloria.
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